TRIBUNALE DI VICENZA 
 
    Il Tribunale, riunito in Camera di consiglio in persona di: 
        dr. Marcello Colasanto, Presidente; 
        dr. Antonio Picardi, Giudice; 
        dr. Giuseppe Limitone, Giudice rel. 
    Visto il ricorso che precede ed i documenti allegati, di  cui  al
fascicolo n. 190/2014, nella procedura prefallimentare instaurata  da
Cattel Catering spa con l'avv. Elisa Filippi di Vicenza; 
    Nei confronti di Tata snc di Marchioro Silvia & C. resistente; 
    Sentita la relazione del giudice incaricato; 
    Ha pronunciato la seguente ordinanza  di  rimessione  alla  Corte
costituzionale. 
Premessa. Inquadramento storico. 
    Si intende porre in discussione  la  legittimita'  costituzionale
della norma che prevede la soggezione al fallimento  di  una  persona
fisica, quale titolare di un'impresa  individuale  insolvente  ovvero
come socio illimitatamente responsabile di una societa' fallibile,  e
non, invece, il fallimento  della  sola  impresa,  senza  coinvolgere
nominalmente la persona fisica, nel caso di impresa  individuale,  od
il socio, nel caso di impresa associata, sempre dal  punto  di  vista
nominale e lessicale. 
    In concreto,  sono  specificamente  impugnate  le  norme  di  cui
all'art. 147, comma 1, e art. 5, comma  1,  regio  decreto  16  marzo
1942, n. 267. 
    Come e' stato bene evidenziato in dottrina, la legge fallimentare
italiana (regio decreto 16 marzo 1942, n. 267), in piu' di 60 anni di
applicazione ha manifestato uno spiccato carattere liquidatorio degli
assets  aziendali,  con  valenza  sostanzialmente   sanzionatoria   e
punitiva nei confronti dell'imprenditore, che ha subito  un  completo
spossessamento  del  suo  patrimonio  ed  una  serie  di  conseguenze
negative anche di carattere personale. La recente riforma del diritto
fallimentare (introdotta dapprima con il decreto-legge 14 marzo 2005,
n. 35, convertito con Legge 14 maggio 2005, n.  80  e,  poi,  con  il
decreto legislativo 9 gennaio 2006, n. 5, che e' entrato in vigore il
16 luglio 2006), invece, ha propugnato una nuova  e  diversa  visione
dell'insolvenza  intesa  come  «episodio  fisiologico  e   non   come
accidente patologico causato da condotta fraudolenta», introducendo i
fenomeni  della  privatizzazione  e  degiurisdizionalizzazione  delle
procedure fallimentari. 
    Questa, peraltro, e' anche  la  tendenza  ormai  consolidata  nei
sistemi giuridici stranieri, ed in primis, in quello anglosassone (v.
in  particolare  l'art.  11  (chapter  eleven)  del  Bankruptcy   Act
statunitense, in tema di reorganization),  al  quale  il  Legislatore
riformista nostrano va ispirandosi. 
    L'inadeguatezza dell'uso del termine «fallito», per colui la  cui
impresa sia in stato di insolvenza, deriva dal fatto che  il  termine
fallito non e'  solo  un  termine  tecnico  giuridico,  ma  anche,  e
soprattutto, un termine di portata ben piu' ampia, che  coinvolge  la
persona nella sua globalita', in  tutte  le  sue  sfere  e  relazioni
sociali, e nel suo piu' intimo sentire ed amor proprio. 
    Colui la cui impresa non abbia funzionato, e che viene dichiarato
fallito, puo' sentirsi per questo, ed essere considerato dagli altri,
un fallito? Cosi' possono pensare le persone con cui viene a contatto
il fallito nella vita di relazione, dalla famiglia  (figli,  coniuge,
parenti)  in  poi  (amici,  colleghi).  Non  si  puo'  dichiarare  il
fallimento di una persona la quale  non  si  riduce  ad  essere  solo
un'impresa. 
    Non e'  modernamente  piu'  tollerabile  che  una  persona  possa
rinunciare al bene della  vita  (cosa  che,  purtroppo,  attualmente,
talvolta, succede) per non subire l'onta di sentirsi chiamare fallito
davanti a tutti. 
    Nel nostro sistema, sulla scorta dell'espressione  decoctor  ergo
fraudator,  il  fallimento  e'   concepito   aprioristicamente   come
conseguenza  della  condotta  della  persona,  infatti,  proprio  per
questo, tuttora fallisce l'imprenditore, e non  l'impresa,  mentre  i
limiti di fallibilita' si riferiscono  macroscopicamente  all'impresa
(ricavi lordi, investimenti,  passivo)  e  non  alla  persona  fisica
(peso, altezza, colore dei capelli)! 
    Mentre la rubrica dell'art. 1 l.f. recita: «Imprese  soggette  al
fallimento e al concordato preventivo», la norma afferma  invece  che
sono soggetti alle disposizioni sul fallimento «gli imprenditori». 
    La discrasia e' evidente. 
La rilevanza nel presente giudizio. 
    Il  presente  giudizio,  in  sede  prefallimentare,  verte  sulla
possibile  dichiarazione  di  fallimento  della  persona  fisica,  in
estensione del fallimento della societa' resistente nel giudizio. 
    La questione di  costituzionalita'  dell'art.  147,  comma  1,  e
dell'art. 5, comma 1, l.f. e' rilevante, perche' il Tribunale,  nella
sua composizione collegiale, dovrebbe dichiarare il fallimento  della
persona fisica, in qualita'  di  socio  illimitatamente  responsabile
della societa'. 
    Se la  norma  venisse  dichiarata  incostituzionale,  invece,  il
Tribunale potra' dichiarare  il  fallimento  (o  l'insolvenza)  della
societa', e l'insolvenza (non il fallimento) del socio. 
Le questioni di costituzionalita'. 
    Si prospettano, pertanto, i possibili profili  di  illegittimita'
costituzionale dell'art. 147, comma 1, e dell'art. 5, comma 1,  l.f.,
secondo la precipua valutazione che ne vorra' dare Codesta Corte: 
        1) Art. 2 Cost.: tutela dei diritti inviolabili,  il  diritto
all'onore (v. C Cost. 1150/1988), nel modo in cui esso  viene  inteso
secondo la costituzione materiale vivente. 
    Si ipotizza un contrasto dell'art. 147, comma 1, e  dell'art.  5,
comma 1, l.f. con la «Costituzione materiale», ossia con l'insieme di
quei valori e principi che danno identita' a  un  ordinamento  e  dai
quali promana la Costituzione formale. I  valori  e  i  principi  che
sorreggono l'ordinamento nel tempo corrente  non  sono,  in  subiecta
materia, indiscutibilmente piu' gli stessi del 1942. 
    La crisi economica e' un dato obiettivo, si fallisce  anche  solo
per non essere stati pagati dai propri clienti, talvolta  persino  lo
Stato,  che,  poi,  nella  veste  dell'ordinamento  giudiziario,  con
sentenza, attribuisce la patente di fallito a colui che esso stesso -
per primo - non ha pagato. 
    Il senso di iniquita' e' patente. 
        2) art. 3, comma 1, Cost.: uguaglianza formale. 
    Si ipotizza un contrasto con la norma di cui all'art. 3, comma 1,
Cost., sotto il profilo della tutela della pari dignita' sociale, che
impedisce la formulazione di giudizi  lesivi  delle  qualita'  morali
dell'individuo (cfr. C. Cost.  159/1973)  (nella  specie:  fallito  =
ingannatore),  o  di  considerare  taluni   cittadini   indegni   del
trattamento sociale riservato  alla  generalita'  degli  altri  (come
conseguenza dell'attribuzione, con sentenza, di  un  termine  che  e'
spregiativo secondo il senso comune:  fallito);  ovvero  intesa  come
tutela dell'onore e come limite dei pubblici poteri,  qui  esercitati
nell'ambito dell'applicazione della legge. 
    Si ipotizza un contrasto ancora con il principio  di  uguaglianza
sotto il profilo  della  disparita'  di  trattamento  tra  situazioni
uguali:  tra  imprenditore  che  fallisce  e  imprenditore  che   non
fallisce, tra una persona insolvente  che  fallisce  ed  una  persona
insolvente che non fallisce. 
        3) art. 3, comma 2, Cost.: uguaglianza sostanziale. 
    L'art. 3, comma 2, Cost. prevede la rimozione degli  ostacoli  di
ordine economico e sociale  che  limitano  di  fatto  la  liberta'  e
l'uguaglianza dei cittadini. 
    La norma e' programmatica, ma e' anche immediatamente precettiva,
nel senso di consentire la rimozione di una norma che costituisca  il
predetto ostacolo. 
        4) art. 41, comma 2, Cost.: iniziativa economica privata. 
    Si ipotizza un contrasto con l'art. 41, comma 2, Cost., sotto  il
profilo della mancata tutela (da parte  Legislativa)  della  dignita'
umana, nell'ambito dell'iniziativa economica privata. 
  La non manifesta infondatezza. 
    E' stato abolito nel 2006 il  registro  dei  falliti,  eppure  si
continua ad attribuire con sentenza la qualifica di fallito,  per  la
dirompenza della quale non occorre certo  un  registro,  bastando  la
propria sensibilita' del soggetto  circa  la  deminutio  lessicale  e
sociale che viene ingiustificatamente a colpirlo,  e  che  si  rivela
quando rientra a casa, in famiglia, a tavola,  nel  talamo,  con  gli
amici, facendo sport, e nella vita sociale tutta. 
    Nel nostro ordinamento, complice un retaggio lessicale  non  piu'
accettabile (decoctor ergo fraudator), risalente  a  storici  insigni
giuristi  del  nostro  sistema  giuridico  (nel   caso   di   specie,
l'espressione e' attribuita a Baldo degli  Ubaldi),  la  qualita'  di
fallito e' attribuita  alla  persona  fisica,  sul  presupposto,  non
dimostrabile a priori e modernamente non  piu'  condivisibile,  della
sua condotta fraudolenta: insolvente (decoctor) e percio' ingannatore
(fraudator).  Fallito  proviene   etimologicamente   da   fallare   =
ingannare. Questo sillogismo, questa  epesegesi,  questa  necessitata
consecuzione causale, non e' piu' accettabile. 
    L'insolvente puo' essere, e normalmente e',  una  brava  persona,
magari incapace di gestire un'azienda, o persino soltanto uno che non
e' stato pagato dai propri clienti, fors'anche dallo  Stato,  ma  non
certo necessariamente un frodatore, o ingannatore,  per  obbligatoria
definizione giudiziaria. 
    Insolvente non e' necessariamente truffatore, quindi  non  e',  e
non deve essere, necessariamente «fallito» (da «fallare»= ingannare). 
    Scriveva Baldo degli Ubaldi: «Falliti sunt infami et  infamissimi
et  more  antiquissimae  legis  tradi  creditoris  laniandi  ..   Nec
excusantur ob adversam fortunam est decoctor ergo fraudator; sic  lex
enim vocat eos, onde edictum fraudatorium» (Consilia, Venezia,  1575,
Vol. V, 399). 
    Il sillogismo medievale evocato dall'espressione  «decoctor  ergo
fraudator», o presunzione di frode del mercante fallito, ha  iniziato
a stemperarsi a partire dal XVI secolo fino al  Codice  di  commercio
Albertino del 1842 ed ai successivi del 1865 e del 1882  e  ormai  si
ritiene appartenere all'archeologia giuridica. Ma  rimane  ancora  la
dichiarazione di fallimento della persona fisica. 
    In linea con la Costituzione materiale  e'  invece  la  normativa
introdotta     per     il     componimento     della     crisi     da
sovraindebitamento, legge  n.  3/2012,   la   quale,   nel   regolare
l'insolvenza  del  soggetto   non   fallibile,   anche   imprenditore
commerciale, ma  al  di  sotto  delle  soglie  di  fallibilita',  non
utilizza mai il termine «fallimento», se non all'art.  12,  comma  5,
per stabilire le conseguenze sull'accordo stipulato con  i  creditori
del  sovraindebitato  dell'eventuale  successiva   dichiarazione   di
fallimento (che, appunto, risolve, l'accordo). 
    Per   il   resto,   la   normativa   stabilisce   le    modalita'
di componimento della crisi da  sovraindebitamento  (c.d.  insolvenza
civile) o mediante un accordo con  i  creditori  (sulla  base  di  un
piano), o mediante un semplice piano (senza accordo), o mediante  una
liquidazione ad opera di un liquidatore giudiziale,  preservando,  in
ogni sua espressione lessicale e fase procedurale, la dignita'  della
persona, che mai si vede attribuita  la  qualifica  di  fallito,  ne'
direttamente, ne' indirettamente, e cio', si noti  bene,  vale  anche
per l'imprenditore sottosoglia ex art. 1, comma 2,  l.f.,  il  quale,
benche' eserciti un'attivita' commerciale, non e' pero'  soggetto  al
fallimento per una mera dinamica contabile della sua  impresa,  fermo
restando che lo stesso soggetto, ove avvenga che superi le soglie  di
fallibilita' nel  corso  dell'attivita'  d'impresa,  potrebbe  essere
anche dichiarato fallito. 
    E' evidente la discrasia tra le due situazioni, dell'imprenditore
sottosoglia, che e' esonerato dalla  capitis  deminutio  sociale  del
fallimento, e di quello soprasoglia (fors'anche  lo  stesso  soggetto
nel  tempo),  che  da  questa  capitis  deminutlo  sociale  non  puo'
sfuggire. 
    E altrettanto dicasi per l'insolvente  imprenditore  soggetto  al
fallimento e l'insolvente non soggetto al fallimento. Piu'  fortunato
l'insolvente che non fallisce: si sentira' meno sminuito in societa'. 
    Molteplici, quindi, i profili di contrasto con  la  Costituzione,
ma principalmente (in connessione con  gli  altri  indicati):  1)  la
lesione  del  principio  di  uguaglianza,  per   la   disparita'   di
trattamento tra un imprenditore soprasoglia ed uno sottosoglia (e tra
un soggetto fallibile ed uno non fallibile)  nel  subire  la  capitis
deminutio  sociale  conseguente  alla  attribuzione  dell'appellativo
«fallito», che viene dato con sentenza ad  una  persona  fisica,  per
l'insolvenza della sua impresa, o della  societa'  di  cui  e'  socio
illimitatamente responsabile; 2) lo iato di sensibilita'  (sociale  e
giuridica) rispetto alla vigente Costituzione materiale, che piu' non
tollera nel proprio sentire che  un  soggetto  persona  fisica  debba
essere qualificato «fallito», sol perche' la sua impresa  commerciale
(e solo essa) non abbia funzionato a dovere, eventualmente anche  per
cause esterne al suo volere,  come  e'  dimostrato  nei  fatti  dalla
mutata sensibilita' del Legislatore, che nella  legge  n.  3/2012  ha
adoperato  espressioni  e  fatto  riferimento  a  procedure   affatto
diverse, comunque svincolate  da  una  logica  nominalmente  punitiva
fallimentaristica, ed implicanti soltanto  procedure  di  regolazione
concordata  della  crisi,  oppure  di  liquidazione  giudiziale,  non
traumatiche per la persona fisica e per la sua dignita'. 
    Si   auspica   di   conseguenza   un   intervento   della   Corte
manipolativo-additivo, consentendo al giudice di non  pronunciare  il
fallimento della  persona  fisica  socio,  per  l'incostituzionalita'
dell'attribuzione della qualifica di fallito, con  tutto  il  portato
etico e sociale che ne consegue, e  per  la  dignita'  della  persona
nella sua globalita', consentendo invece di dichiararne l'insolvenza,
dichiarando il  fallimento  (o  l'insolvenza)  dell'impresa  sociale,
intesa  come  attivita',  in  attesa  dell'auspicata   rielaborazione
organica complessiva della intera materia fallimentare, sulla  scorta
del modello operativo costituito dalla legge n. 3/2012. 
    Voglia,  percio',  l'Eccell.ma  Corte  costituzionale  dichiarare
l'illegittimita' costituzionale: dell'art. 147, comma 1, e  dell'art.
5, comma 1, l.f., nella parte in cui determinano  il  fallimento  del
socio illimitatamente  responsabile  di  societa'  fallita,  anziche'
limitarsi  a   determinarne   la   dichiarazione   d'insolvenza,   in
conseguenza della dichiarazione di fallimento (o di insolvenza) della
societa' (le norme impugnate potrebbero cosi'  risultare:  art.  147,
«La sentenza che dichiara  il  fallimento  (o  l'insolvenza)  di  una
societa' (...) produce  anche  la  dichiarazione  di  insolvenza  dei
soci.»); art. 5, «L'imprenditore che si trova in  stato  d'insolvenza
e' dichiarato insolvente.», oppure «L'impresa che si trova  in  stato
d'insolvenza e' dichiarata fallita.»).